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sábado, 26 de noviembre de 2022

Non ci ha creduto

 


Foto di Andrea Ranzi


Le dijo que sea infinito mientras dure amor,

que sea infinito.

pamela rodríguez

 

I

Qualche anno fa, quando ero ancora giovane e abitavo a Lima, ascoltavo tutto il tempo una canzone indie di una compositrice peruviana che parla dell’“amore liquido”, cioè, di quel modo di concepire i rapporti sentimentali in cui non si garantisce al partner la costanza delle promesse nuziali, ma sì l’intensità di una passione sincera e profonda, per quanto effimera possa essere. Ebbene, una settimana fa ho avuto l’opportunità di vedere la mia prima opera lirica in Italia, il Lohengrin (1849) di Wagner, in una città di grande tradizione di rappresentazioni wagneriane, Bologna, e subito dopo le quattro ore di spettacolo mi sono ricordato di quella vecchia canzone che parla di un “amore infinito finché dura”. Quella che all’inizio era una semplice associazione di idee, è stata rafforzata da alcuni testi contenuti nel programma dell’opera. Ad esempio, da un articolo di giornale su un’altra messa in scena, sempre bolognese, degli anni Venti del secolo scorso, estraggo il seguente paragrafo:

Lohengrin è il dramma dell’ideale: ha una vasta portata, un grande significato. Il cavaliere del Graal che discende dalle regioni eteree a farsi vindice di una innocente fanciulla, vittima di orrenda macchinazione, simboleggia in forma sensibile, plastica, l’ideale al quale ciascuno di noi si abbandona nei momenti più burrascosi della vita per attingervi ogni speranza e per trarne motivo di gioia. Ma non appena la cieca fiducia vien meno, non appena l’ansito del dubbio ci percuote, e a questo ideale sognato si vogliono dare i contorni della realtà, ecco che il fantasma si rivela per tale, e sparisce distruggendo ogni nostra fede, e ritorna annientato, nel mondo della irrealtà dal quale è disceso.

C'è però una differenza tra la lettura che si fa oggi di questo amore liquido e l’interpretazione di un secolo fa: mentre nel primo caso è vista come un’esperienza positiva, un modo di relazionarsi pieno di verità e che elimina le bugie delle convenzioni borghesi; nel secondo caso è un’esperienza negativa che «distrugge ogni nostra fede». Forse, per via della postmodernità, che è stata più una “struttura del sentimento” come diceva Raymond Williams che una corrente organizzata di pensiero, forse grazie ad essa ci è più facile pensare alla storia di Lohengrin ed Elsa come una bella parabola di ciò che succede oggi a tante coppie nel mondo occidentale. Forse è questa una delle cause della freschezza che trasuda ancora “l’opera romantica” di Wagner.

II

Questo è il primo testo che scrivo su uno spettacolo d’opera lirica. Il motivo è molto semplice: la fortuna. Mai in vita mia ho avuto la fortuna di ascoltare dal vivo i principali responsabili di una messa in scena di questo tipo: il direttore d’orchestra e il regista.

Pochi giorni prima che andassi a vedere lo spettacolo al Teatro Comunale, presso il foyer dello stesso posto, era stato organizzato un convegno sui rapporti tra Verdi e Wagner in occasione della prima italiana del Lohengrin (con libretto italiano) realizzata a Bologna nel 1871. Quel pomeriggio l’israeliano Asher Fisch, responsabile della direzione dell’orchestra, tenne un discorso in cui rimarcava come Verdi fosse andato a vedere l’opera del suo rivale tedesco in incognito e avesse riempito il libretto di appunti negativi. Ma la cosa veramente interessante fu quando Fisch, seduto al pianoforte, ci fece ascoltare alcuni brani musicali delle opere dell’italiano, in particolare dell’Otello (1887), che rivelavano una forte influenza dei procedimenti compositivi di Wagner. Verdi aveva impiegato circa quindici anni, e diverse letture, per digerire ciò che lo interessava della “musica dell’avvenire”.

Un’altra felice coincidenza. Iscritto all’Università di Bologna a un corso di storia della regia lirica, ho avuto modo di parlare con il direttore dell’allestimento del Lohengrin perché il professore lo aveva invitato a una lezione. Devo dire che l’incontro con l’italiano Luigi de Angelis è stata un’esperienza interessante perché, in termini generali, ho condiviso la sua visione del presente e del futuro dell’opera lirica. Per lui il teatro (e l’opera ha un piede su quel terreno) non può essere slegato da ciò che accade intorno a sé e deve in qualche modo incorporarlo. Allo stesso modo, ci ha informato sui complessi meccanismi e negoziazioni che avvengono all’interno del sistema operistico e che rendono più complesso il lavoro di un regista teatrale e videoartista come lui quando affronta progetti come il Lohengrin.

Con tutti questi incontri, la mia motivazione a vedere il lavoro era piuttosto alta. Tuttavia, alla fine dello spettacolo, devo dire che ho lasciato il teatro con sentimenti contrastanti per quanto riguarda la messa in scena. E siccome il professore del corso universitario mi aveva detto, in tono scherzoso, che sarebbe interessato a conoscere il motivo della mia insoddisfazione, ebbene, ecco perché ho deciso di scrivere questo testo...

III

Mi concentrerò sulla messa in scena (luci, suono, costumi, gestione degli attori/cantanti, scenografia, ecc.). L’opera è divisa in tre atti (rispettivamente di tre, cinque e tre scene). Ogni atto è preceduto da un preludio.

Primo atto

Per il preludio, De Angelis ha scelto di proiettare sullo sfondo del palcoscenico, circoscritto dalle tre pareti di una specie di scatola, il video di una foresta di alberi avvolta nella nebbia. È stata una buona intuizione, anche se ho trovato un peccato che gli oggetti scenici nell’ombra non consentissero guardare la proiezione senza ostacoli (forse a causa di limiti tecnici). La prima scena è stata allestita come un’aula di tribunale nello stile dei processi nazisti a Norimberga. I costumi (Chiara Lagani) hanno mantenuto tutti la stessa estetica e questo è stata un’altra scelta corretta, fino all’arrivo di Lohengrin nella seconda scena, che appare in abito bianco illuminato da luci al LED che hanno distrutto l’armonia visiva. Un altro punto negativo è stato l’inserimento di primi piani di un cigno in stile iperrealista e con colori saturati che rompevano i toni tenui del video del fiume calmo (che dava un’idea chiara che l’eroe proveniva dalla natura) proiettato durante la scena del processo. Altri elementi superflui erano l’orologio digitale che pendeva dal soffitto per scandire l’ora del processo, il cambio d’abito dei tribuni, le spade giganti che entrano dai lati dello scenario quando Lohengrin e Telramund combattono, e l’illuminazione rossastra in alcuni momenti culminanti dell’atto. Indubbiamente è stato opportuno che l’Araldo chieda sul bordo del palco se qualcuno tra il pubblico era disposto a difendere Elsa nel “giudizio di Dio” che si stava per svolgere con le luci della sala accese mentre gli spettatori si guardavano perplessi.

Secondo atto

Il piccolo preludio del secondo atto passò inosservato. Successivamente, in cambio, si è mostrato il meglio di questa messa in scena. Il regista ha pensato ad un contrasto molto efficace tra basso/rosso/Ortrud e alto/blu/Elsa. Inoltre, la scena minimalista aveva una luce viola fluorescente che divideva orizzontalmente il palcoscenico tra la dimensione della cospirazione tra Ortrud e Telramund (prima scena), e quella della purezza e della fiducia di Elsa (seconda scena). L’uso della proiezione di un film come simbolo della figura serpentina di Ortrud (che brucia al culmine della sua malvagità) è stata un’altra scoperta significativa della regia, sebbene l’inclusione dei segmenti con il conto regressivo fosse del tutto inutile. Un altro elemento di poca importanza era senza dubbio il labirinto che si proiettava dall’alto dello scenario e che dal punto di vista dal pubblico (io ero in platea) appena si vedeva. Ma qui arriviamo alla svolta dell’allestimento perché la terza, quarta e quinta scena sono state le meno convincenti di tutto lo spettacolo: costumi del coro femminile estremamente colorati e fuori dall’estetica guerriera e militaresca presentata all’inizio; il vestito di Elsa che brillava come quello di Lohengrin; combinazione bruttissima di luci verdi, rosa e rosse; svelamento di una croce con riflettori di intensità troppo forte che disturbavano la vista degli spettatori; apparizione del bambino del primo preludio, il fratello scomparso di Elsa, con il cigno di cartapesta senza alcun legame con l’azione drammatica. Di tutta questa parte si salvano solo l’uso di un’orchestra nascosta come metodo di spazializzazione del suono e il finale di atto con Ortrud e Telramund abbracciati e soddisfatti per aver riempito Elsa di incertezze.

Terzo atto

È stato ben fatto poter ascoltare il preludio con il palcoscenico al buio accompagnati dall’attore che rappresenta Wagner debolmente illuminato in uno dei palchi laterali della sala. Nella prima scena, il coro delle donne è stato abilmente nascosto, conferendo alla scena un aspetto solenne (anche se il palcoscenico vuoto all’inizio potrebbe essere riempito con qualcosa) che, purtroppo, è stato interrotto dal quadro di opera buffa nella seconda scena, quando Lohengrin insegue Elsa in quella che sarebbe una camera da letto. Ancora in quella scena, la scelta cromatica della scenografia (blu), dei costumi (finalmente il tenore si è tolto l’orribile abito bianco) e degli oggetti scenici (la gigantesca spada a destra che scende lentamente verso il cigno situata verso il fondo) ha dato un chiaro resoconto dei dubbi che avevano invaso l’animo di Elsa nei confronti del suo irreprensibile marito. Nel passaggio alla terza scena, una scelta intelligente è stata quella di mostrare il cambio di scena che ritorna all’ambientazione giudiziaria iniziale. Tuttavia, è stato spaventoso vedere di nuovo Lohengrin con il completo bianco, che sembrava anche adattarsi abbastanza male al cantante, e la riapparizione della ripresa filmica della testa del cigno in fondo allo scenario.

Una persona che aveva anche visto la messa in scena mi ha detto che sembrava che il regista abbia avuto un’idea, ma non l’aveva sviluppata fino in fondo. La risposta, probabilmente, è che non ci ha creduto. Come molti di noi che stavamo a teatro, non ci abbiamo creduto.


sábado, 12 de noviembre de 2022

El cine de terror sobre la violencia de género


No existen géneros más violentos que el de las películas bélicas, las de vaqueros y de samuráis, y el cine de terror. Ahí es donde se manifiesta ese poder que solo tiene el cine para mostrar lo que más queremos ocultar (además obviamente del sexo, pero para eso está el cine erótico y la pornografía): el cuerpo, los instintos y el dolor. No quiero proseguir en esta línea mi reflexión, sino más bien centrarme en el último de estos géneros, que en los últimos años ha vivido un renacimiento en los Estados Unidos con directores como Jordan Peele (1979), Robert Eggers (n. 1983) o Ari Aster (n. 1986), quienes han decidido ampliar el espectro de los temas usuales del mismo (leyendas urbanas y conflictos adolescentes) con otros nuevos como los provenientes del folclore, el racismo y los problemas intergeneracionales. Sin embargo, en el seno mismo de la rica tradición cinematográfica de ese país ha comenzado a despuntar otros nombres que han apostado por el terror para expresar preocupaciones de una generación con una fuerte militancia feminista desde el destape de movimientos como Ni una menos (2015) y Me Too (2017). En este texto, quisiera recomendar tres películas que se encuadran en ese horizonte, es decir, que abordan el problema de la violencia de género desde el punto de vista de las mujeres (aunque solo heterosexuales y con patrones de belleza hegemónicos). 


La primera película es Ready or Not (2019) de la dupla formada por Matt Bettinelli-Olpin (n. 1978) y Tyler Gillett (n. 1982). A continuación, copio la primera sinopsis que encuentro en internet: “Durante la noche de su boda, una mujer recibe la invitación por parte de la rica y excéntrica familia de su marido para participar en una tradición ancestral que se convierte en un juego letal de supervivencia”. La razón de la cacería se debe a que un tiempo atrás, el viejo patriarca hizo un pacto con un ser demoniaco y, a cambio de la prosperidad económica de su descendencia, le prometió el sacrificio de aquellos que ingresarán a su familia. Más allá de la cuestión sobrenatural, la verdadera denuncia de la película radica en el sadismo de los parientes del novio y en la mentira de este, quien no informa a su prometida de dicha “costumbre”. Aquí, la violencia contra la protagonista es de género y de clase: una combinación bastante común. 


El segundo trabajo es Watcher (2022) de Chloe Okuno (n. 1987). Procedo de la misma manera que en el caso anterior: “El film sigue a Julia, una actriz que recientemente se mudó a Bucarest con su esposo Francis, quien descubre que un vecino la está observando del otro lado de la calle, al mismo tiempo que se declara a un asesino serial suelto por el barrio”. En este caso, el aislamiento de la protagonista se debe a su condición migrante (ella es estadounidense, mientras el esposo tiene ascendencia rumana), una experiencia traumática sobre todo si se pasa a un contexto en el cual no se conoce el idioma ni las costumbres. Así, lo que realmente es un acto de acoso no es tomado en serio ni por su pareja ni por las autoridades locales, mientras su única amiga le aconseja llevar un arma consigo. Como en muchos casos, se termina responsabilizando a la victima a la que se acusa de distorsionar los hechos debido a una emotividad exacerbada o a un cuadro depresivo. 


Finalmente, no me gustaría cerrar este recuento sin mencionar Fresh (2022) de Mimi Cave. El argumento, bastante general, es el siguiente: “Los horrores de las citas durante la modernidad se examinan a través de los ojos de una joven mujer que debe luchas contra los inusuales antojos de su nuevo novio”. Pero, en este caso, la película es más que una crítica del “amor líquido”. De lo que se trata es del secuestro, tortura y intento de asesinato de la protagonista por parte de un psicópata caníbal que además lucra con la carne de las mujeres que captura vendiéndolas a través de internet a un selecto grupo de acaudaladas personas que comparten su misma “debilidad” por el sexo femenino. La película es una sutil alegoría del proxenetismo. Pero, además de eso, afirma claramente que la salvación no vendrá del sexo masculino sino de la solidaridad entre las propias mujeres y, por ello, condena la complicidad de personas como la esposa del feminicida.