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Foto di Andrea Ranzi |
Le dijo que sea infinito mientras dure amor,
que sea infinito.
pamela rodríguez
I
Qualche anno fa, quando ero
ancora giovane e abitavo a Lima, ascoltavo tutto il tempo una canzone indie di
una compositrice peruviana che parla dell’“amore liquido”, cioè, di quel modo
di concepire i rapporti sentimentali in cui non si garantisce al partner la
costanza delle promesse nuziali, ma sì l’intensità di una passione sincera e
profonda, per quanto effimera possa essere. Ebbene, una settimana fa ho avuto
l’opportunità di vedere la mia prima opera lirica in Italia, il Lohengrin
(1849) di Wagner, in una città di grande tradizione di rappresentazioni
wagneriane, Bologna, e subito dopo le quattro ore di spettacolo mi sono
ricordato di quella vecchia canzone che parla di un “amore infinito finché
dura”. Quella che all’inizio era una semplice associazione di idee, è stata
rafforzata da alcuni testi contenuti nel programma dell’opera. Ad esempio, da
un articolo di giornale su un’altra messa in scena, sempre bolognese, degli
anni Venti del secolo scorso, estraggo il seguente paragrafo:
Lohengrin è il
dramma dell’ideale: ha una vasta portata, un grande significato. Il cavaliere
del Graal che discende dalle regioni eteree a farsi vindice di una innocente
fanciulla, vittima di orrenda macchinazione, simboleggia in forma sensibile,
plastica, l’ideale al quale ciascuno di noi si abbandona nei momenti più
burrascosi della vita per attingervi ogni speranza e per trarne motivo di
gioia. Ma non appena la cieca fiducia vien meno, non appena l’ansito del dubbio
ci percuote, e a questo ideale sognato si vogliono dare i contorni della
realtà, ecco che il fantasma si rivela per tale, e sparisce distruggendo ogni
nostra fede, e ritorna annientato, nel mondo della irrealtà dal quale è
disceso.
C'è però una differenza tra la
lettura che si fa oggi di questo amore liquido e l’interpretazione di un secolo
fa: mentre nel primo caso è vista come un’esperienza positiva, un modo di
relazionarsi pieno di verità e che elimina le bugie delle convenzioni borghesi;
nel secondo caso è un’esperienza negativa che «distrugge ogni nostra fede».
Forse, per via della postmodernità, che è stata più una “struttura del
sentimento” come diceva Raymond Williams che una corrente organizzata di pensiero,
forse grazie ad essa ci è più facile pensare alla storia di Lohengrin ed Elsa
come una bella parabola di ciò che succede oggi a tante coppie nel mondo
occidentale. Forse è questa una delle cause della freschezza che trasuda ancora
“l’opera romantica” di Wagner.
II
Questo è il primo testo che
scrivo su uno spettacolo d’opera lirica. Il motivo è molto semplice: la
fortuna. Mai in vita mia ho avuto la fortuna di ascoltare dal vivo i principali
responsabili di una messa in scena di questo tipo: il direttore d’orchestra e
il regista.
Pochi giorni prima che andassi a
vedere lo spettacolo al Teatro Comunale, presso il foyer dello stesso posto,
era stato organizzato un convegno sui rapporti tra Verdi e Wagner in occasione
della prima italiana del Lohengrin (con libretto italiano) realizzata a
Bologna nel 1871. Quel pomeriggio l’israeliano Asher Fisch, responsabile della
direzione dell’orchestra, tenne un discorso in cui rimarcava come Verdi fosse
andato a vedere l’opera del suo rivale tedesco in incognito e avesse riempito
il libretto di appunti negativi. Ma la cosa veramente interessante fu quando
Fisch, seduto al pianoforte, ci fece ascoltare alcuni brani musicali delle
opere dell’italiano, in particolare dell’Otello (1887), che rivelavano
una forte influenza dei procedimenti compositivi di Wagner. Verdi aveva
impiegato circa quindici anni, e diverse letture, per digerire ciò che lo
interessava della “musica dell’avvenire”.
Un’altra felice coincidenza.
Iscritto all’Università di Bologna a un corso di storia della regia lirica, ho
avuto modo di parlare con il direttore dell’allestimento del Lohengrin
perché il professore lo aveva invitato a una lezione. Devo dire che l’incontro
con l’italiano Luigi de Angelis è stata un’esperienza interessante perché, in
termini generali, ho condiviso la sua visione del presente e del futuro
dell’opera lirica. Per lui il teatro (e l’opera ha un piede su quel terreno)
non può essere slegato da ciò che accade intorno a sé e deve in qualche modo
incorporarlo. Allo stesso modo, ci ha informato sui complessi meccanismi e
negoziazioni che avvengono all’interno del sistema operistico e che rendono più
complesso il lavoro di un regista teatrale e videoartista come lui quando
affronta progetti come il Lohengrin.
Con tutti questi incontri, la mia
motivazione a vedere il lavoro era piuttosto alta. Tuttavia, alla fine dello
spettacolo, devo dire che ho lasciato il teatro con sentimenti contrastanti per
quanto riguarda la messa in scena. E siccome il professore del corso
universitario mi aveva detto, in tono scherzoso, che sarebbe interessato a
conoscere il motivo della mia insoddisfazione, ebbene, ecco perché ho deciso di
scrivere questo testo...
III
Mi concentrerò sulla messa in
scena (luci, suono, costumi, gestione degli attori/cantanti, scenografia,
ecc.). L’opera è divisa in tre atti (rispettivamente di tre, cinque e tre
scene). Ogni atto è preceduto da un preludio.
Primo atto
Per il preludio, De Angelis ha
scelto di proiettare sullo sfondo del palcoscenico, circoscritto dalle tre
pareti di una specie di scatola, il video di una foresta di alberi avvolta
nella nebbia. È stata una buona intuizione, anche se ho trovato un peccato che
gli oggetti scenici nell’ombra non consentissero guardare la proiezione senza
ostacoli (forse a causa di limiti tecnici). La prima scena è stata allestita
come un’aula di tribunale nello stile dei processi nazisti a Norimberga. I
costumi (Chiara Lagani) hanno mantenuto tutti la stessa estetica e questo è stata un’altra
scelta corretta, fino all’arrivo di Lohengrin nella seconda scena, che appare
in abito bianco illuminato da luci al LED che hanno distrutto l’armonia visiva.
Un altro punto negativo è stato l’inserimento di primi piani di un cigno in
stile iperrealista e con colori saturati che rompevano i toni tenui del video
del fiume calmo (che dava un’idea chiara che l’eroe proveniva dalla natura)
proiettato durante la scena del processo. Altri elementi superflui erano
l’orologio digitale che pendeva dal soffitto per scandire l’ora del processo,
il cambio d’abito dei tribuni, le spade giganti che entrano dai lati dello
scenario quando Lohengrin e Telramund combattono, e l’illuminazione rossastra
in alcuni momenti culminanti dell’atto. Indubbiamente è stato opportuno che
l’Araldo chieda sul bordo del palco se qualcuno tra il pubblico era disposto a
difendere Elsa nel “giudizio di Dio” che si stava per svolgere con le luci
della sala accese mentre gli spettatori si guardavano perplessi.
Secondo atto
Il piccolo preludio del secondo
atto passò inosservato. Successivamente, in cambio, si è mostrato il meglio di
questa messa in scena. Il regista ha pensato ad un contrasto molto efficace tra
basso/rosso/Ortrud e alto/blu/Elsa. Inoltre, la scena minimalista aveva una
luce viola fluorescente che divideva orizzontalmente il palcoscenico tra la dimensione
della cospirazione tra Ortrud e Telramund (prima scena), e quella della purezza
e della fiducia di Elsa (seconda scena). L’uso della proiezione di un film come
simbolo della figura serpentina di Ortrud (che brucia al culmine della sua
malvagità) è stata un’altra scoperta significativa della regia, sebbene
l’inclusione dei segmenti con il conto regressivo fosse del tutto inutile. Un
altro elemento di poca importanza era senza dubbio il labirinto che si
proiettava dall’alto dello scenario e che dal punto di vista dal pubblico (io
ero in platea) appena si vedeva. Ma qui arriviamo alla svolta dell’allestimento
perché la terza, quarta e quinta scena sono state le meno convincenti di tutto
lo spettacolo: costumi del coro femminile estremamente colorati e fuori
dall’estetica guerriera e militaresca presentata all’inizio; il vestito di Elsa
che brillava come quello di Lohengrin; combinazione bruttissima di luci verdi,
rosa e rosse; svelamento di una croce con riflettori di intensità troppo forte
che disturbavano la vista degli spettatori; apparizione del bambino del primo
preludio, il fratello scomparso di Elsa, con il cigno di cartapesta senza alcun
legame con l’azione drammatica. Di tutta questa parte si salvano solo l’uso di
un’orchestra nascosta come metodo di spazializzazione del suono e il finale di
atto con Ortrud e Telramund abbracciati e soddisfatti per aver riempito Elsa di
incertezze.
Terzo atto
È stato ben fatto poter
ascoltare il preludio con il palcoscenico al buio accompagnati dall’attore che
rappresenta Wagner debolmente illuminato in uno dei palchi laterali della sala.
Nella prima scena, il coro delle donne è stato abilmente nascosto, conferendo
alla scena un aspetto solenne (anche se il palcoscenico vuoto all’inizio
potrebbe essere riempito con qualcosa) che, purtroppo, è stato interrotto dal
quadro di opera buffa nella seconda scena, quando Lohengrin insegue Elsa in
quella che sarebbe una camera da letto. Ancora in quella scena, la scelta
cromatica della scenografia (blu), dei costumi (finalmente il tenore si è tolto
l’orribile abito bianco) e degli oggetti scenici (la gigantesca spada a destra
che scende lentamente verso il cigno situata verso il fondo) ha dato un chiaro
resoconto dei dubbi che avevano invaso l’animo di Elsa nei confronti del suo
irreprensibile marito. Nel passaggio alla terza scena, una scelta intelligente
è stata quella di mostrare il cambio di scena che ritorna all’ambientazione
giudiziaria iniziale. Tuttavia, è stato spaventoso vedere di nuovo Lohengrin
con il completo bianco, che sembrava anche adattarsi abbastanza male al
cantante, e la riapparizione della ripresa filmica della testa del cigno in
fondo allo scenario.
Una persona che aveva anche
visto la messa in scena mi ha detto che sembrava che il regista abbia avuto un’idea,
ma non l’aveva sviluppata fino in fondo. La risposta, probabilmente, è che non
ci ha creduto. Come molti di noi che stavamo a teatro, non ci abbiamo creduto.
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