El Trípode de Helena es un blog personal. En la parte superior de la columna izquierda, verán mi retrato y debajo una breve biodata. A continuación, están organizadas las entradas según los temas recurrentes y según la fecha en la que fueron publicadas. Si a alguno de ustedes le intriga el título del blog, de click aquí. Si están interesados en descubrir más acerca de la imagén del encabezado, entren aquí.

sábado, 26 de noviembre de 2022

Non ci ha creduto

 


Foto di Andrea Ranzi


Le dijo que sea infinito mientras dure amor,

que sea infinito.

pamela rodríguez

 

I

Qualche anno fa, quando ero ancora giovane e abitavo a Lima, ascoltavo tutto il tempo una canzone indie di una compositrice peruviana che parla dell’“amore liquido”, cioè, di quel modo di concepire i rapporti sentimentali in cui non si garantisce al partner la costanza delle promesse nuziali, ma sì l’intensità di una passione sincera e profonda, per quanto effimera possa essere. Ebbene, una settimana fa ho avuto l’opportunità di vedere la mia prima opera lirica in Italia, il Lohengrin (1849) di Wagner, in una città di grande tradizione di rappresentazioni wagneriane, Bologna, e subito dopo le quattro ore di spettacolo mi sono ricordato di quella vecchia canzone che parla di un “amore infinito finché dura”. Quella che all’inizio era una semplice associazione di idee, è stata rafforzata da alcuni testi contenuti nel programma dell’opera. Ad esempio, da un articolo di giornale su un’altra messa in scena, sempre bolognese, degli anni Venti del secolo scorso, estraggo il seguente paragrafo:

Lohengrin è il dramma dell’ideale: ha una vasta portata, un grande significato. Il cavaliere del Graal che discende dalle regioni eteree a farsi vindice di una innocente fanciulla, vittima di orrenda macchinazione, simboleggia in forma sensibile, plastica, l’ideale al quale ciascuno di noi si abbandona nei momenti più burrascosi della vita per attingervi ogni speranza e per trarne motivo di gioia. Ma non appena la cieca fiducia vien meno, non appena l’ansito del dubbio ci percuote, e a questo ideale sognato si vogliono dare i contorni della realtà, ecco che il fantasma si rivela per tale, e sparisce distruggendo ogni nostra fede, e ritorna annientato, nel mondo della irrealtà dal quale è disceso.

C'è però una differenza tra la lettura che si fa oggi di questo amore liquido e l’interpretazione di un secolo fa: mentre nel primo caso è vista come un’esperienza positiva, un modo di relazionarsi pieno di verità e che elimina le bugie delle convenzioni borghesi; nel secondo caso è un’esperienza negativa che «distrugge ogni nostra fede». Forse, per via della postmodernità, che è stata più una “struttura del sentimento” come diceva Raymond Williams che una corrente organizzata di pensiero, forse grazie ad essa ci è più facile pensare alla storia di Lohengrin ed Elsa come una bella parabola di ciò che succede oggi a tante coppie nel mondo occidentale. Forse è questa una delle cause della freschezza che trasuda ancora “l’opera romantica” di Wagner.

II

Questo è il primo testo che scrivo su uno spettacolo d’opera lirica. Il motivo è molto semplice: la fortuna. Mai in vita mia ho avuto la fortuna di ascoltare dal vivo i principali responsabili di una messa in scena di questo tipo: il direttore d’orchestra e il regista.

Pochi giorni prima che andassi a vedere lo spettacolo al Teatro Comunale, presso il foyer dello stesso posto, era stato organizzato un convegno sui rapporti tra Verdi e Wagner in occasione della prima italiana del Lohengrin (con libretto italiano) realizzata a Bologna nel 1871. Quel pomeriggio l’israeliano Asher Fisch, responsabile della direzione dell’orchestra, tenne un discorso in cui rimarcava come Verdi fosse andato a vedere l’opera del suo rivale tedesco in incognito e avesse riempito il libretto di appunti negativi. Ma la cosa veramente interessante fu quando Fisch, seduto al pianoforte, ci fece ascoltare alcuni brani musicali delle opere dell’italiano, in particolare dell’Otello (1887), che rivelavano una forte influenza dei procedimenti compositivi di Wagner. Verdi aveva impiegato circa quindici anni, e diverse letture, per digerire ciò che lo interessava della “musica dell’avvenire”.

Un’altra felice coincidenza. Iscritto all’Università di Bologna a un corso di storia della regia lirica, ho avuto modo di parlare con il direttore dell’allestimento del Lohengrin perché il professore lo aveva invitato a una lezione. Devo dire che l’incontro con l’italiano Luigi de Angelis è stata un’esperienza interessante perché, in termini generali, ho condiviso la sua visione del presente e del futuro dell’opera lirica. Per lui il teatro (e l’opera ha un piede su quel terreno) non può essere slegato da ciò che accade intorno a sé e deve in qualche modo incorporarlo. Allo stesso modo, ci ha informato sui complessi meccanismi e negoziazioni che avvengono all’interno del sistema operistico e che rendono più complesso il lavoro di un regista teatrale e videoartista come lui quando affronta progetti come il Lohengrin.

Con tutti questi incontri, la mia motivazione a vedere il lavoro era piuttosto alta. Tuttavia, alla fine dello spettacolo, devo dire che ho lasciato il teatro con sentimenti contrastanti per quanto riguarda la messa in scena. E siccome il professore del corso universitario mi aveva detto, in tono scherzoso, che sarebbe interessato a conoscere il motivo della mia insoddisfazione, ebbene, ecco perché ho deciso di scrivere questo testo...

III

Mi concentrerò sulla messa in scena (luci, suono, costumi, gestione degli attori/cantanti, scenografia, ecc.). L’opera è divisa in tre atti (rispettivamente di tre, cinque e tre scene). Ogni atto è preceduto da un preludio.

Primo atto

Per il preludio, De Angelis ha scelto di proiettare sullo sfondo del palcoscenico, circoscritto dalle tre pareti di una specie di scatola, il video di una foresta di alberi avvolta nella nebbia. È stata una buona intuizione, anche se ho trovato un peccato che gli oggetti scenici nell’ombra non consentissero guardare la proiezione senza ostacoli (forse a causa di limiti tecnici). La prima scena è stata allestita come un’aula di tribunale nello stile dei processi nazisti a Norimberga. I costumi (Chiara Lagani) hanno mantenuto tutti la stessa estetica e questo è stata un’altra scelta corretta, fino all’arrivo di Lohengrin nella seconda scena, che appare in abito bianco illuminato da luci al LED che hanno distrutto l’armonia visiva. Un altro punto negativo è stato l’inserimento di primi piani di un cigno in stile iperrealista e con colori saturati che rompevano i toni tenui del video del fiume calmo (che dava un’idea chiara che l’eroe proveniva dalla natura) proiettato durante la scena del processo. Altri elementi superflui erano l’orologio digitale che pendeva dal soffitto per scandire l’ora del processo, il cambio d’abito dei tribuni, le spade giganti che entrano dai lati dello scenario quando Lohengrin e Telramund combattono, e l’illuminazione rossastra in alcuni momenti culminanti dell’atto. Indubbiamente è stato opportuno che l’Araldo chieda sul bordo del palco se qualcuno tra il pubblico era disposto a difendere Elsa nel “giudizio di Dio” che si stava per svolgere con le luci della sala accese mentre gli spettatori si guardavano perplessi.

Secondo atto

Il piccolo preludio del secondo atto passò inosservato. Successivamente, in cambio, si è mostrato il meglio di questa messa in scena. Il regista ha pensato ad un contrasto molto efficace tra basso/rosso/Ortrud e alto/blu/Elsa. Inoltre, la scena minimalista aveva una luce viola fluorescente che divideva orizzontalmente il palcoscenico tra la dimensione della cospirazione tra Ortrud e Telramund (prima scena), e quella della purezza e della fiducia di Elsa (seconda scena). L’uso della proiezione di un film come simbolo della figura serpentina di Ortrud (che brucia al culmine della sua malvagità) è stata un’altra scoperta significativa della regia, sebbene l’inclusione dei segmenti con il conto regressivo fosse del tutto inutile. Un altro elemento di poca importanza era senza dubbio il labirinto che si proiettava dall’alto dello scenario e che dal punto di vista dal pubblico (io ero in platea) appena si vedeva. Ma qui arriviamo alla svolta dell’allestimento perché la terza, quarta e quinta scena sono state le meno convincenti di tutto lo spettacolo: costumi del coro femminile estremamente colorati e fuori dall’estetica guerriera e militaresca presentata all’inizio; il vestito di Elsa che brillava come quello di Lohengrin; combinazione bruttissima di luci verdi, rosa e rosse; svelamento di una croce con riflettori di intensità troppo forte che disturbavano la vista degli spettatori; apparizione del bambino del primo preludio, il fratello scomparso di Elsa, con il cigno di cartapesta senza alcun legame con l’azione drammatica. Di tutta questa parte si salvano solo l’uso di un’orchestra nascosta come metodo di spazializzazione del suono e il finale di atto con Ortrud e Telramund abbracciati e soddisfatti per aver riempito Elsa di incertezze.

Terzo atto

È stato ben fatto poter ascoltare il preludio con il palcoscenico al buio accompagnati dall’attore che rappresenta Wagner debolmente illuminato in uno dei palchi laterali della sala. Nella prima scena, il coro delle donne è stato abilmente nascosto, conferendo alla scena un aspetto solenne (anche se il palcoscenico vuoto all’inizio potrebbe essere riempito con qualcosa) che, purtroppo, è stato interrotto dal quadro di opera buffa nella seconda scena, quando Lohengrin insegue Elsa in quella che sarebbe una camera da letto. Ancora in quella scena, la scelta cromatica della scenografia (blu), dei costumi (finalmente il tenore si è tolto l’orribile abito bianco) e degli oggetti scenici (la gigantesca spada a destra che scende lentamente verso il cigno situata verso il fondo) ha dato un chiaro resoconto dei dubbi che avevano invaso l’animo di Elsa nei confronti del suo irreprensibile marito. Nel passaggio alla terza scena, una scelta intelligente è stata quella di mostrare il cambio di scena che ritorna all’ambientazione giudiziaria iniziale. Tuttavia, è stato spaventoso vedere di nuovo Lohengrin con il completo bianco, che sembrava anche adattarsi abbastanza male al cantante, e la riapparizione della ripresa filmica della testa del cigno in fondo allo scenario.

Una persona che aveva anche visto la messa in scena mi ha detto che sembrava che il regista abbia avuto un’idea, ma non l’aveva sviluppata fino in fondo. La risposta, probabilmente, è che non ci ha creduto. Come molti di noi che stavamo a teatro, non ci abbiamo creduto.


sábado, 12 de noviembre de 2022

El cine de terror sobre la violencia de género


No existen géneros más violentos que el de las películas bélicas, las de vaqueros y de samuráis, y el cine de terror. Ahí es donde se manifiesta ese poder que solo tiene el cine para mostrar lo que más queremos ocultar (además obviamente del sexo, pero para eso está el cine erótico y la pornografía): el cuerpo, los instintos y el dolor. No quiero proseguir en esta línea mi reflexión, sino más bien centrarme en el último de estos géneros, que en los últimos años ha vivido un renacimiento en los Estados Unidos con directores como Jordan Peele (1979), Robert Eggers (n. 1983) o Ari Aster (n. 1986), quienes han decidido ampliar el espectro de los temas usuales del mismo (leyendas urbanas y conflictos adolescentes) con otros nuevos como los provenientes del folclore, el racismo y los problemas intergeneracionales. Sin embargo, en el seno mismo de la rica tradición cinematográfica de ese país ha comenzado a despuntar otros nombres que han apostado por el terror para expresar preocupaciones de una generación con una fuerte militancia feminista desde el destape de movimientos como Ni una menos (2015) y Me Too (2017). En este texto, quisiera recomendar tres películas que se encuadran en ese horizonte, es decir, que abordan el problema de la violencia de género desde el punto de vista de las mujeres (aunque solo heterosexuales y con patrones de belleza hegemónicos). 


La primera película es Ready or Not (2019) de la dupla formada por Matt Bettinelli-Olpin (n. 1978) y Tyler Gillett (n. 1982). A continuación, copio la primera sinopsis que encuentro en internet: “Durante la noche de su boda, una mujer recibe la invitación por parte de la rica y excéntrica familia de su marido para participar en una tradición ancestral que se convierte en un juego letal de supervivencia”. La razón de la cacería se debe a que un tiempo atrás, el viejo patriarca hizo un pacto con un ser demoniaco y, a cambio de la prosperidad económica de su descendencia, le prometió el sacrificio de aquellos que ingresarán a su familia. Más allá de la cuestión sobrenatural, la verdadera denuncia de la película radica en el sadismo de los parientes del novio y en la mentira de este, quien no informa a su prometida de dicha “costumbre”. Aquí, la violencia contra la protagonista es de género y de clase: una combinación bastante común. 


El segundo trabajo es Watcher (2022) de Chloe Okuno (n. 1987). Procedo de la misma manera que en el caso anterior: “El film sigue a Julia, una actriz que recientemente se mudó a Bucarest con su esposo Francis, quien descubre que un vecino la está observando del otro lado de la calle, al mismo tiempo que se declara a un asesino serial suelto por el barrio”. En este caso, el aislamiento de la protagonista se debe a su condición migrante (ella es estadounidense, mientras el esposo tiene ascendencia rumana), una experiencia traumática sobre todo si se pasa a un contexto en el cual no se conoce el idioma ni las costumbres. Así, lo que realmente es un acto de acoso no es tomado en serio ni por su pareja ni por las autoridades locales, mientras su única amiga le aconseja llevar un arma consigo. Como en muchos casos, se termina responsabilizando a la victima a la que se acusa de distorsionar los hechos debido a una emotividad exacerbada o a un cuadro depresivo. 


Finalmente, no me gustaría cerrar este recuento sin mencionar Fresh (2022) de Mimi Cave. El argumento, bastante general, es el siguiente: “Los horrores de las citas durante la modernidad se examinan a través de los ojos de una joven mujer que debe luchas contra los inusuales antojos de su nuevo novio”. Pero, en este caso, la película es más que una crítica del “amor líquido”. De lo que se trata es del secuestro, tortura y intento de asesinato de la protagonista por parte de un psicópata caníbal que además lucra con la carne de las mujeres que captura vendiéndolas a través de internet a un selecto grupo de acaudaladas personas que comparten su misma “debilidad” por el sexo femenino. La película es una sutil alegoría del proxenetismo. Pero, además de eso, afirma claramente que la salvación no vendrá del sexo masculino sino de la solidaridad entre las propias mujeres y, por ello, condena la complicidad de personas como la esposa del feminicida.

viernes, 28 de octubre de 2022

La ópera lírica (de mi vida)



Bryn Terfel como Don Giovanni


Esta es una lista (para fines eminentemente personales) de las óperas líricas (y oratorios) que he visto en vivo o a través de grabaciones en orden cronológico según su estreno (año, lugar, compositor y libretista):

-        L'incoronazione di Poppea (1643, Teatro Santi Giovanni e Paolo/Venecia, Claudio Monteverdi, Giovanni Francesco Busenello)

    Rinaldo (1711, Queen's Theatre/Londres, Georg Friedrich Händel, Giacomo Rossi)

-        La serva padrona (1733, Teatro San Bartolomeo/Nápoles, Giovanni Battista Pergolesi, Gennaro Antonio Federico)

         Messiah (1742, Neal's New Music Hall/Dublín, Georg Friedrich Händel, Charles Jennens)

-        Le nozze di Figaro (1785, Burgtheater/Viena, Wolfgang Amadeus Mozart, Lorenzo da Ponte)

-        Prima la musica e poi le parole (1786, Schloss Schönbrunn/Viena, Antonio Salieri, Giovanni Battista Casti)

-        Der Schauspieldirektor (1786, Schloss Schönbrunn/Viena, Wolfgang Amadeus Mozart, Gottlieb Stephanie)

-        Don Giovanni o sia Il convitato di pietra (1787, Teatro San Moisè/Venecia, Giuseppe Gazzaniga, Giovanni Bertati)

-        Il dissoluto punito, ossia il Don Giovanni (1787, Ständetheater/Praga, Wolfgang Amadeus Mozart, Lorenzo da Ponte)

-        Così fan tutte, ossia La scuola degli amanti (1790, Burgtheater/Viena, Wolfgang Amadeus Mozart, Lorenzo da Ponte)

-        Die Zauberflöte (1791, Theater auf der Wieden/Viena, Wolfgang Amadeus Mozart, Emanuel Schikaneder)

          Die Schöpfung (1799, Burgtheater/Viena, Joseph HaydnGottfried van Swieten)

-        Almaviva, o sia L'inutile precauzione (1816, Teatro Argentina/Roma, Gioachino Rossini, Cesare Sterbini)

-        Mosè in Egitto (1818, Teatro San Carlo/Nápoles, Gioachino Rossini, Andrea Leone Tottola)

-        Semiramide (1823, Teatro La Fenice/Venecia, Gioachino Rossini, Gaetano Rossi)

         Il viaggio a Reims ossia L'albergo del Giglio d'Oro (1825, Théâtre Italien/París, Gioachino Rossini, Giuseppe Luigi Balòcchi)

-        Maria di Rohan (1843, Kärntnertortheater/Viena, Gaetano Donizetti, Salvatore Cammarano)

-        Giovanna d’Arco (1845, Teatro alla Scala/Milán, Giuseppe Verdi, Temistocle Solera)

         Lohengrin (1850, Großherzogliches Hoftheater/Weimar, Richard Wagner)

-        Rigoletto (1851, Teatro La Fenice/Venecia, Giuseppe Verdi, Francesco Maria Piave)

         La traviata (1853, Teatro La Fenice/Venecia, Giuseppe Verdi, Francesco Maria Piave)

-        Faust (1859, Théâtre Lyrique/París, Charles Gounod, Jules Barbier y Michel Carré)

-        Tristan und Isolde (1865, Königliches Hof-und Nationaltheater/Múnich, Richard Wagner)

         Carmen (1875, Opéra-comique/París, Georges Bizet, Henri Meilhac y Ludovic Halévy)

-        Lo schiavo (1889, Teatro Imperial D. Pedro II/Río de Janeiro, Antônio Carlos Gomes, Rodolfo Paravicini)

         La bohème (1896, Teatro Regio/Turín, Giacomo Puccini, Giuseppe Giacosa y Luigi Illica)

-        Motsart i Salyeri (1898, Teatro Solodovnikov/Moscú, Nikolái Rimski-Kórsakov, Aleksandr Pushkin)

-        Tosca (1900, Teatro Costanzi/Roma, Giacomo Puccini, Giuseppe Giacosa y Luigi Illica)

-        Salome (1905, Königliches Opernhaus/Dresde, Richard Strauss, Hedwig Lachmann)

          Bà Wáng Bié Jī (1918, Pekín)

         Turandot (1926, Teatro alla Scala/Milán, Giacomo Puccini y Franco Alfano, Giuseppe Adami y Renato Simoni)

-        Les mamelles de Tirésias (1947, Opéra-Comique/París, Francis Poulenc, Guillaume Apollinaire)

-        Einstein on the Beach (1976, Théâtre Municipal/Aviñón, Philip Glass, Robert Wilson)

-        Heart Chamber (2019, Deutsche Oper Berlin/Berlín, Chaya Czernowin)

-        L’ombra di un meriggio lontano (2022, DAMSLab Teatro/Bolonia, Virginia Guastalla) 

domingo, 25 de septiembre de 2022

La danza de los maestros: Alcune coreografie



La danza ha sido uno de esos territorios todavía inexplorados en mi propio acercamiento a las artes escénicas. Hace poco cayó entre mis manos el libro de Curt Sachs, Historia universal de la danza, escrito en 1933, que comienza con una afirmación categórica: «La danza es la madre de las artes». Pues bien, aunque ya un poco desactualizado desde el punto de vista antropológico, no ha dejado de entregarnos algunos razonamientos interesantes, sobre todo cuando se centra en los aspectos formales de las danzas occidentales. Pero no es mi intención hacer un comentario crítico de dicha obra. En realidad, si he tomado la computadora para juntar algunas palabras ha sido por el impulso provocado después de asistir a un espectáculo de danza moderna italiana. En ese sentido, escribo este post como nota mental de cosas que no quiero olvidar.

Titulado Alcune coreografie, la coreografía y la videocoreografía eran responsabilidad de Jacopo Jenna: sociólogo, danzador y realizador cinematográfico. La producción corrió a cargo de Kinkaleri, grupo de investigación sobre la performance y el movimiento afincado en Florencia desde 1995. La performer fue Ramona Caia. La representación a la que asistí ocurrió en la noche del miércoles 21 de setiembre de 2022 en la sala DAMSLab de la Università di Bologna. La obra duró unos cuarenta minutos. 

Hasta aquí los datos. Es tiempo de las interpretaciones:

1. La obra está dividida en dos partes bastante claras.

2. La primera parte consiste en la “imitación” por parte de la performer de un conjunto de movimientos coreográficos proyectados sobre una tela blanca ubicada a su espalda y visibles para el espectador. Estos movimientos son una serie de escenas tomadas de películas o productos televisivos, videos no profesionales, ensayos o espectáculos grabados donde una o más personas bailan. Cada par de minutos, las imágenes se detienen y se proyecta un color. Esto sirve como descanso para la performer, pero también permite que no se retrase o adelante respecto a su imitación, porque muchas veces, los movimientos los hace sin ver la secuencia proyectada. Es decir, se trata de un ejercicio de memoria rítmica y corporal.

3. Toda esta primera parte muestra el lado humano de la danza presente en diversas manifestaciones como la fiesta, el rito, el teatro, el cine, la publicidad, la política, etc. Es una especie de Mnemosyne Atlas de la danza como lo imaginaba Aby Warburg con las imágenes, porque cada secuencia está milimétricamente pensada para ser cortada en un movimiento que parece continuar sin cesuras con el del siguiente “material encontrado” formando una única coreografía.

4. En la segunda parte, la performer se recuesta en el suelo y hace movimientos lentos mientras que se proyectan imágenes de paisajes, animales, plantas, organismos celulares, diseños geométricos y entornos creados virtualmente que son combinados con piezas musicales (sobre todo clásicas, de rock y de música electroacústica). Estas secuencias son acompañadas de títulos como: “Los Andes escuchando el sonido del mar”. También hay algunas pocas secuencias en las que no hay música como “El lobo pensando en ti”.

5. Aquí nos ponemos en contacto con el lado no humano de la danza, es decir, con una concepción expandida de esta arte. Todo movimiento es danza, pero no solo todo movimiento humano, sino todo movimiento en general, desde aquel imperceptible del crecimiento de las ramas en un árbol hasta el frenético de las hormigas trasportando su alimento. Y si lo que dice Sachs es cierto, que las danzas han nacido por imitación de los hombres de la naturaleza, de los animales, pero también de las plantas, minerales, astros, etc. que lo rodeaban en la noche de los tiempos, entonces Alcune coreografie no hace más que restituir la dignidad de los primeros danzadores, de los más antiguos. De nuestros maestros.

lunes, 20 de junio de 2022

Los jóvenes en la crisis del orden: Las coordenadas de la lucha


Premisa:


Lotta Comunista es un partido político italiano de ideología leninista, internacionalista y extraparlamentario fundado por Arrigo Cervetto en los años 50. Es autosostenido por sus propios miembros (eso significa que no recibe fondos del Estado ni donaciones), a través de las cuotas de sus afiliados y la venta de su propio periódico (publicado cada mes). Su distribución territorial comprende una serie de sedes, llamadas Circolo operario, en las principales ciudades de Italia y en algunas otras de Europa (París, Londres, Atenas, Valencia y Berlín). El redactor del presente informe ha entrado en contacto con el círculo de Bolonia en septiembre de 2021. 


Relación:


El evento I giovani nella crisi dell'ordine. Le coordinate della lotta (Los jóvenes en la crisis del orden. Las coordenadas de la lucha) se llevó a cabo el domingo 19 de junio de 2022 en la Sala Chiamata del Porto, en Génova, Italia. Se trató del primer encuentro en presencia de las bases jóvenes del partido después de más de dos años (el último se había hecho en Milán, en febrero de 2020). Asistieron aproximadamente unas 600 personas de diversos círculos: Pisa, Padua, Nápoles, Bérgamo, Milán, Brescia, Génova, Bolonia, Turín, Roma, Savona, Florencia y de las cincos sedes fuera de Italia.


El tema principal del encuentro giró en torno al informe de las y los jóvenes (menores de 30 años) de cada uno de los círculos presentes sobre el desarrollo del voluntariado comunista, instrumento del partido para reclutar a nuevos cuadros. El voluntariado ha servido, en los últimos dos años, para afrontar los problemas de precarización del trabajo y alza del costo de vida en las ciudades, provocado por la pandemia del COVID y la guerra en Ucrania. Sus labores han incluido la recolección de productos de los supermercados, la distribución de canastas de alimentos a las familias pobres, la enseñanza de italiano a los extranjeros y la venta del periódico del partido. En líneas generales, una de cada 14 personas contactadas a través del voluntariado termina convirtiéndose en un activista, es decir, asume tareas de organización regularmente.


Asimismo, otro tema discutido fue el contexto de guerra que está viviendo Europa. "Hay días que valen cómo años" ha estado repetido varias veces por los dirigentes en sus intervenciones de apertura y cierre. El rearme militar de Alemania y Japón, ante el peligro de un enfrentamiento contra Rusia y China, respectivamente, muestra que el futuro del imperialismo de los países desarrollados del Norte (sobre todo de aquellos pertenecientes a la OTAN) no será ajeno a nuevos enfrentamientos bélicos (el caso Taiwán). 


Simultáneamente, los economistas liberales alertan del peligro de que el proceso de la globalización se invierta y se produzca un proteccionismo generalizado. El imperialismo europeo (UE), en particular, ha entrado en una "economía de guerra", lo que implica el racionamiento de sus recursos y la búsqueda de una autarquía energética que le permita enfrentar una nueva división del mundo por el enfrentamiento EE.UU.-China. Frente a esto, la propuesta del partido para sus militantes es mantener su oposición a todas las guerras iniciadas por las burguesías nacionales, a través de la acción combinada del más grande ejército que existe: el de los trabajadores del mundo.

miércoles, 19 de enero de 2022

Las dos ciudades muertas


 

Hace poco, pude asistir a una retrospectiva del pintor italiano Giovanni Boldini (Ferrara, 1842-París, 1931). La muestra estaba llena de referencias a ese periodo histórico en el que Boldini ganó fama como retratista de las mujeres de la aristocracia y la alta burguesía europeas: la Belle Époque. Entre los escritores con los que se comparaba al Little Italian (Boldini medía poco más de metro y medio) como lo llamaban los ingleses, destacaban el francés Marcel Proust (París, 1871-1922) y el italiano Gabriele D’Annunzio (Pescara, 1863-Gardone Riviera, 1938). De este último se mencionaba en particular su primera novela, Il Piacere (1889). Sin embargo, indagando un poco más en la producción de il Vate, me llamó la atención una obra teatral suya, La città morta (escrita en 1896), la cual además me recordó inmediatamente un título de una novela corta de Abraham Valdelomar (Ica, 1888-Ayacucho, 1919), La ciudad muerta (escrita a fines de 1910). He tenido la oportunidad de leer recientemente ambos textos y, a continuación, me centraré en mostrar cuáles son las similitudes y diferencias que he encontrado.  

1. Los contextos

En 1895, D’Annunzio hizo un viaje a Grecia para visitar las ruinas de la ciudad de Micenas, “rica en oro”, recientemente redescubiertas por Heinrich Schliemann. Esta experiencia, aunada a la lectura de Die Geburt Der Tragödie (1872) de Friedrich Nietzsche y del teatro simbolista de Henrik Ibsen (Et dukkehjem, 1879) y Maurice Maeterlink (Pelléas et Mélisande, 1892) motivaron al hasta entonces poeta y novelista a incursionar en el teatro. Otro factor importante fue la relación amorosa que mantuvo con la célebre actriz italiana Eleonora Duse (Vigevano, 1858-Pittsburgh, 1924) desde 1894, para quien en un inicio había pensado escribir la obra. Sin embargo, por inconvenientes de diverso tipo, el texto fue estrenado en París (1898), traducido al francés, por la rival de la Duse, la diva Sarah Bernhardt (Paris, 1844-1923).

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A partir de 1909, Valdelomar comenzó a publicar sus primeros poemas y cuentos en diversas revistas de Lima. En 1910, reanudó sus estudios en la Facultad de Letras de la Universidad Nacional Mayor de San Marcos (los había dejado en 1906 para trabajar como caricaturista) y se incorporó al ejército ante el peligro de una conflagración con el Ecuador. En setiembre, realizó un extenso viaje por el sur del país (Arequipa, Cuzco y Puno). Fue durante esta época que escribió sus dos novelas cortas: La ciudad muerta y La ciudad de los tísicos, las cuales aparecieron publicadas por entregas, en 1911 (año en el que también incursionó en el teatro con El vuelo), en las revistas La Ilustración Peruana (abril-mayo) y Variedades (junio-setiembre) respectivamente. En ambas es patente el influjo de Edgar Allan Poe a través de Clemente Palma (Cuentos malévolos, 1904) y del decadentismo dannunziano.

2. Los géneros

La obra de D’Annunzio es un drama trágico, es decir, un texto construido principalmente a partir del recurso literario del diálogo. Está estructurado en cinco actos y escrito en prosa. Los modelos principales son las piezas del realismo simbolista nórdico, caracterizado por exponer los hechos nefastos con crudeza; y las tragedias griegas, en particular, Agamenón (458 a. C.) de Esquilo y Antígona (441 a.C.) de Sófocles, las cuales son citadas en la obra.

“Siamo la preda d'una forza oscura e invincibile. Tu senti, Anna, tu senti che un orrendo nodo s'è stretto ormai e che bisogna reciderlo. Abbiamo evitato di parlare, fino a questo momento, perché a me come a te ogni parola è parsa inutile e solo il silenzio è parso un modo di accettare le necessità degno di noi e di quel che noi fummo. Ora tutto precipita. È venuto per ciascuno di noi il momento di guardare in faccia il Destino…”.

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En el caso de Valdelomar, se trata de una novela epistolar, un texto narrativo construido como si se tratara de una extensa carta escrita por el protagonista y cuyo destinatario es el personaje que aparece en el subtítulo del libro: Por qué no me casé con Francinette. La misiva está dividida en nueve capítulos e intercala entre sus páginas un tríptico de poemas modernistas que aparecieron publicados luego en la antología Las voces múltiples (1916). El modelo principal de la obra es, sin lugar a duda, la novela Cartas a una turista (1905) de Enrique A. Carrillo (Lima, 1877-1936), aunque en este caso se abandona el tono frívolo, sin dejar la preferencia por los personajes extranjeros.

3. Las historias

En La città morta, se nos muestra a cinco personajes italianos. El arqueólogo Leonardo y su hermana Bianca Maria (imagen de Antígona); su amigo, el poeta Alessandro y su esposa ciega Anna (imagen de Cassandra); y la anciana ama de pecho de esta última. Las escenas ocurren en tres espacios distintos: una habitación amplia con una balaustrada que se abre sobre las ruinas de Micenas, donde Leonardo trabaja buscando las tumbas de los Atridas; el estudio del arqueólogo; y la fuente Perseia, una cisterna subterránea. Los tres primeros actos parecen ocurrir el mismo día; los dos últimos, al día siguiente.

La historia es muy sencilla: Alessandro se ha enamorado de Bianca Maria, Anna es consciente de ello y está dispuesta a dar un paso al costado, pero Leonardo también ama a Bianca, a pesar de que es su hermana. El desenlace es ominoso: Presa de los celos, Leonardo ahoga a Bianca en la fuente y es descubierto por Alessandro y Anna, la cual recupera la vista frente al cadáver. La Argólide y sus mitos repletos de incestos y asesinatos ha terminado por contaminar a los protagonistas hasta llevarlos a reproducir en sus propias vidas el destino de los héroes trágicos.

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En La ciudad muerta, el protagonista, un medico que trabaja como oficial de sanidad en un puerto de la costa peruana (llamado C“”), le escribe, desde un barco que está a punto de arribar a Río de Janeiro, una carta a su ex novia francesa “Francy”, a quién ha abandonado poco antes del matrimonio. La razón es bastante simple: un tiempo atrás, él había conocido a Henri d’Herauville, novelista y anterior novio de Francinette, que había realizado un viaje a Sudamérica para conocer las misteriosas ruinas de una ciudad colonial ubicada unos tres kilómetros tierra adentro del puerto de C“”; su guía en esta excursión había sido el narrador, quien lo perdió de vista mientras el escritor se internaba por unos corredores subterráneos en medio de la vetusta villa y presa de la culpa decide interrumpir su relación con Francy.

“Llegaba hasta nosotros el vaho fresco del río, el aire terroso, de las cosas olvidadas de esa ciudad muerta, y la luz divina y verde de la luna que dibujaba esa arquitectura colonial, encantadora, vieja y rica entre la que éramos como dos almas de esos tiempos”.

Aquí también es el aire viciado del pasado el que enajena a los personajes, pero en este caso ese pasado no es el de la polis micénica sino el de la urbe virreinal con sus inquisidores y oidores. Una década después, Valdelomar trasladó las ideas de D’Annunzio, recodificándolas a las exigencias de su propia tradición literaria e histórica, para componer una obra que muestra la ambigüedad de una herencia cultural que es, como el mundo mediterráneo para los europeos, todavía difícil de asimilar.