El Trípode de Helena es un blog personal. En la parte superior de la columna izquierda, verán mi retrato y debajo una breve biodata. A continuación, están organizadas las entradas según los temas recurrentes y según la fecha en la que fueron publicadas. Si a alguno de ustedes le intriga el título del blog, de click aquí. Si están interesados en descubrir más acerca de la imagén del encabezado, entren aquí.

sábado, 18 de diciembre de 2021

Esiste un imperialismo cinese?


 

Poco prima di tornare in Russia dall'esilio, Lenin pubblicò L'imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916). In questo libro, il futuro leader della rivoluzione bolscevica prediceva la fine del liberalismo economico nelle nazioni più industrializzate, cioè della dottrina del libero scambio e della concorrenza tra imprese. E non aveva torto. Sebbene nel decennio successivo (i “ruggenti anni Venti”) si sia verificata una graduale liberalizzazione degli scambi in Europa, la Grande Depressione (1929) ha portato Paesi come gli Stati Uniti d'America ad attuare misure protezionistiche per evitare squilibri commerciali (Legge Smoot-Hawley del 1930). Mezzo secolo prima, in quello stesso Paese, era stato creato il primo monopolio al mondo, lo Standard Oil Trust (1982), le cui operazioni riguardavano l'estrazione, la trasformazione, la distribuzione e la vendita del 90% del petrolio statunitense. Sebbene pochi anni dopo, il presidente Harrison approvò lo Sherman Act (1890) per combattere pratiche monopolistiche e concorrenza sleale, la sua efficacia fu notevolmente inferiore fino all'inizio della Prima guerra mondiale.

Finita la parentesi “dell'economia di guerra” (controllo della politica monetaria, autarchia produttiva, risparmio energetico, aumento dell'industria pesante, diminuzione dei salari, razionamento, ecc.), culminata con la sconfitta dei fascismi europei e il consolidamento degli USA come prima potenza industriale e militare del pianeta (egemonia contesa solo dall'Unione Sovietica, intrappolata nel miraggio riformista staliniano del “socialismo in un solo paese”), le idee di Lenin furono riprese dal comunista italiano Arrigo Cervetto che coniò, nella prima metà degli anni Cinquanta, il termine imperialismo unitario. Per Cervetto, nel nuovo ordine mondiale, quasi nessun Paese poteva vantarsi di essere economicamente indipendente dal sistema capitalista. La competizione tra capitalismi “nazionali” che aveva portato in passato alle due guerre mondiali, si risolveva ora nel rafforzamento di una borghesia internazionale che era l'unica beneficiaria dell'apparente divisione del globo tra un blocco democratico-capitalista e un altro dittatoriale-comunista. In definitiva, non c'era una vera scelta e i sistemi politici avevano poca influenza sulla determinazione strutturale del quadro generale: il capitalismo era diventato l'unico sistema-mondo.

La caduta del muro di Berlino (1989) e del “socialismo reale”, lungi dal modificare questa situazione, l'ha solo rivelata, poiché ha significato la convergenza di un sistema economico (capitalismo) e di un sistema politico (democrazia liberale) come ricetta esclusiva per lo sviluppo di una nazione. In questo mondo apparentemente senza ideologie (“fine della storia”), il primato degli USA era dovuto solo alla sua maggiore partecipazione al complesso produttivo-finanziario dell'imperialismo unitario, assecondato dal suo relativamente nuovo satellite transatlantico, l'Unione Europea (1993). Tuttavia, la situazione privilegiata del binomio USA-UE (la cui continuità è stata messa in pericolo durante la presidenza Trump) ha iniziato a essere minacciata, da diversi anni, dalla rapida ascesa della Repubblica Popolare Cinese. Analizzare come questo Paese sia passato dalla feudalità a essere la seconda economia mondiale, in meno di mezzo secolo (Mao morì nel 1976) e senza adottare la ricetta politica della democrazia liberale, sarebbe oggetto di un altro articolo. Ma una cosa deve essere chiara: ancora una volta, come nel caso della defunta Unione Sovietica post-Lenin, la Cina non si presenta come un'alternativa al capitalismo, ma come una nuova protagonista nel dramma del suo sviluppo storico.

Il miglior esempio del futuro strategico della Cina sulla scena internazionale è il progetto della Nuova via della seta. È un corridoio terrestre e marittimo che mira a collegare l'Asia e il Medio Oriente con l'Europa. Mentre la rotta terrestre sembra essere assicurata dai suoi partner Russia e Turchia, e dai paesi dell'ex Unione Sovietica, la rotta marittima è quella che ha meglio messo in funzione la potenza economica di Pechino. Ne è un esempio l'acquisto del 51% della società Porto Il Pireo (il più grande in Grecia) da parte della compagnia di stato cinese Cosco nel 2016. La Grecia (afflitta dalla crisi del debito sovrano dal 2009) è diventata così il punto di arrivo per navi mercantili cinesi che attraversano il Canale di Suez dall'Oceano Indiano. Inoltre, il colosso asiatico non ha nascosto l'intenzione di acquisire il controllo di altri porti europei come Trieste, in Italia. Quest'ultimo Paese, infatti, è stato il primo del G-7 a firmare un accordo (2019) per far parte della grande rete infrastrutturale che la Cina vuole finanziare.

Un altro luogo su cui Pechino ha puntato gli occhi, dal 2012, sono i Balcani. Gli asiatici hanno stabilito accordi commerciali con la Serbia (la azienda semipubblica Huawei ha collaborato con il Ministero dell'Interno di quel paese per l'installazione di oltre 1000 telecamere di videosorveglianza a Belgrado), il Montenegro (dove lo stato cinese sta finanziando le infrastrutture stradali), Bosnia-Erzegovina (che ha ricevuto un prestito di 680 milioni di dollari per la ristrutturazione di una centrale elettrica a carbone) e l'Ungheria (primo Paese UE dove il governo di Xi Jinping sta realizzando direttamente una rete ferroviaria). Infatti, la futura linea Belgrado-Budapest, iniziata nel 2018 e classificata come “segreto di Stato” dal Parlamento ungherese, è la chiave per l'ingresso delle merci cinesi nell'Europa centrale e occidentale dal suo porto greco.

Non a caso, la sostenuta politica di riavvicinamento e collaborazione con il governo di Xi Jinping dell'ex cancelliera tedesca Angela Merkel (che si è recata più volte a Pechino per firmare importanti accordi bilaterali) e la crisi del Covid-19 (che ha mostrato i limiti del multilateralismo occidentale) hanno finito per fare del Paese asiatico, nel 2020, il primo partner commerciale dell'UE, al di sopra degli USA; nonostante le innumerevoli denunce che lo Stato cinese ha di violazioni dei diritti umani di dissidenti politici e popolazioni minoritarie come gli uiguri o i tibetani. Questo mostra l'ipocrisia delle democrazie liberali. Quanto sopra conferma che la “guerra commerciale” tra Washington e Pechino per l'egemonia nel Vecchio Continente è stata risolta in favore di quest'ultimo. In questo senso, l'uscita del Regno Unito dall'UE (Brexit 2020) e la formazione di un'alleanza militare strategica tra tale Paese, gli USA e l'Australia (AUKUS, istituita nel 2021 e che ha sollevato le proteste del governo Macron per l'annullamento di un contratto per l'acquisizione di sottomarini nucleari francesi da parte di Canberra) non fanno altro che dimostrare che il destino di Londra era di rimanere fedele alla sua solidarietà anglosassone e transatlantica, contro il filo dell'asse Parigi-Bruxelles-Berlino.

Il destino della Cina si giocherà nei prossimi anni, anni in cui assisteremo ad un riarmo militare ed energetico nei paesi più industrializzati (l'UE sta cercando, attraverso una “rivoluzione ecologica”, di raggiungere l'autonomia energetica, mentre Cina e gli USA sembrano continuare a scommettere sulle energie inquinanti, almeno per un altro paio di decenni). Ma qualunque cosa accada, possiamo solo osare sostenere la seguente tesi: l'ascesa del gigante asiatico non significa l'apparizione di una nuova potenza imperialista; al contrario, si tratta del consolidamento del solido edificio dell'imperialismo unitario, quello che comincia ad abbandonare l'ornamento retorico del liberalismo politico e si mostra, finalmente, così com'è, come una perfetta “società di controllo” (Deleuze) senza gli antiquati “valori” delle rivoluzioni borghesi.

 

Vignola, dicembre 2021


miércoles, 24 de marzo de 2021

¿Por qué ser de izquierda hoy?



I


Quiero comenzar planteando una pregunta: ¿a qué llamamos izquierda hoy? 


A pesar de no tener una respuesta definitiva, me inclino a asociar este concepto con el de emancipación. Emancipación de lxs trabajadorxs de la explotación capitalista, emancipación de las mujeres y de lxs consideradxs "disidentes sexuales" del patriarcado, emancipación de los pueblos colonizados y racializados de los colonizadores y racistas, etc. 


Para mí, pensar, organizarse y actuar para lograr esos objetivos es ser de izquierda (y no solo el estatismo o el proteccionismo económico, porque también los hay de derecha). Esto significa creer que se puede transformar radicalmente el mundo, es decir, que es posible hacer realidad una utopía. Por eso, otro concepto clave es el de revolución


Con esto no estoy planteando tomar las armas e iniciar otra guerra fratricida al estilo jacobino. No. De lo que se trata, en cambio, es de disputar la hegemonía en el plano discursivo, el cual articula la ciencia, la política, la economía, la cultura, la sexualidad y todas las demás esferas en las que ha sido segmentada, por el hombre blanco y occidental, la totalidad no suturada de lo social.



Ahora bien, ¿existe una única forma de hacerlo? Mi respuesta es de nuevo no. Por eso, en lugar de hablar de la Izquierda, prefiero hablar de las izquierdas, plurales y contradictorias muchas veces entre sí, pero guiadas por la materialización de un horizonte (imposible para el sentido común hegemónico) en el cual la dominación de una clase, un sexo, un país o, incluso, una especie sobre otrx haya sido abolida. 


II


Llegado a este punto, la pregunta inversa es inevitable: ¿para lograr lo que propongo, es cualquier camino válido?


Descartada la violencia, todo haría suponer que buscar la expansión global de las conquistas del liberalismo democrático es la ruta más viable. Pero esto no es del todo cierto y, además, encierra grandes peligros para las izquierdas en su conjunto. Nuestra revolución no puede contentarse con los ideales democráticos (como afirma el posmarxismo), sino trascenderlos a través de una revolución permanente de lo social. Me gustaría ilustrar el peligro al que me he referido antes con un ejemplo.


Guardo un gran aprecio por el socialismo libertario, el cual nos ha entregado conceptos (la propiedad privada como robo) y tácticas de lucha (la huelga general) cuya validez y efectividad no han caducado. También, debo reconocer su gran papel en la organización sindical hace más de un siglo y en la solidaridad de clase de carácter internacional (no en vano, muchos anarquistas fueron geógrafos y notaron la arbitrariedad de las divisiones políticas de los Estados-nación frente a la continuidad geográfica, lingüística y cultural de los territorios). Pero eso no impide que discrepe con sus simpatizantes respecto a su concepción de la lucha por la emancipación. 


La razón principal de mi desacuerdo es que noto un enquistamiento del liberalismo burgués en el seno del anarquismo. El pensamiento dicotómico y jerárquico que nos obliga a sacrificar la igualdad por la libertad, lo colectivo por lo individual, tara de una subjetividad cartesiana que se consolidó con la Ilustración y que nos gobierna sin que nos demos cuenta, es la piedra angular tanto de los socialismos libertarios (de izquierda) como de los libertarianismos (de derecha), motivo por el cual han terminado resultando, para fines prácticos, casi indistinguibles.


En ese sentido también, ni la propaganda por el hecho (o el terrorismo) ni el nihilismo (o el cinismo posmoderno) son alternativas fructíferas para encauzar el enfrentamiento contra las relaciones de opresión que rigen la vida actual, porque siguen atravesados por la agresividad jacobina o el liberalismo burgués. 


III


¿Y, entonces, por dónde debemos empezar?


Tentativamente, es decir, probándolo todo. No debemos descartar ni la articulación de clase, de partido, de bloque histórico que nos ha legado la tradición de izquierda. Pero tampoco nos podemos cerrar en ellas hasta convertir alguna en la única elegida para encabezar la revolución (ni debemos caer en la tentación de su conducción por una vanguardia iluminada). 


El terreno discursivo de la disputa por la hegemonía requiere creación heroica, no copia o calco de experiencia pasadas o extranjeras. Por eso, lo primero que hay que hacer es estudiar al Perú. La crisis por la que atraviesa lo social en nuestro país no es coyuntural, sino estructural. 


Cuando nos referimos a algo coyuntural estamos hablando de un hecho esporádico, aislado y que implica la búsqueda de soluciones a corto o mediano plazo, urgentes (alta intensidad) y sectoriales (baja extensión). Por ejemplo, el desgaste de la democracia en el Perú, leído de esa manera, ha motivado movimientos como el ya crepuscular antifujimorismo, que asume que el desprestigio de la política ante la sociedad civil o la informalidad de nuestros partidos solo es responsabilidad de un ex presidente y que los esfuerzos deben concentrarse en eliminarlo a él y a su dinastía de la arena electoral. Ese es un error. 


En cambio, cuando hablamos de algo estructural, es necesario referirnos a la noción de estructura, es decir, a un conjunto de términos y al tipo de relaciones que establecen entre sí, y que nos permiten interpretar la realidad.


Existe un sinnúmero de relaciones posibles entre los elementos de una estructura (complementariedad o subalternidad, contrariedad u oposición real y, la que la ortodoxia marxista ha sacralizado, contradicción lógica). Asimismo, las estructuras pueden ser diádicas, triádicas, cuaternarias, etc. En su mayor complejidad yace su mayor riqueza. Lo significativo es que nos sirven para estabilizar en el pensamiento un conjunto de relaciones, de posiciones; en otras palabras, que tienen como objetivo construir una totalidad


Quisiera que no se me malinterprete. Cuando hablo de totalidad, no me refiero a completitud, por lo que esos modelos son siempre aproximaciones parciales de la realidad (entendía está última como un campo más amplio de sobredeterminaciones discursivas y no como un referente con una existencia ya dada) y deben estar sujetos a crítica y continua modificación. Tampoco estoy retomando la vieja dicotomía infraestructura (base material)/superestructura (vida social) del marxismo "clásico", porque desde mi punto de vista no existe más que un único plano: el discursivo. 


Creo que es responsabilidad de toda organización política la elaboración colectiva, a través del diálogo y la negociación, de estructuras comunes con las cuales poder explicar y transformar un estado de cosas. Y sostengo que serán esas estructuras por advenir las que podrán permitirnos encontrar consensos en medio de la multiplicidad de posiciones del amplio espectro de las izquierdas en el Perú.


IV


Esta serie de planteamientos me conducen a una última interrogante: ¿qué significante puede aglutinar un posible diagnóstico del país? 


Una vez más, con ello no me estoy refiriendo a una verdad última que responda de manera definitiva a la pregunta de en qué momento se jodió el Perú, sino a una posibilidad de lectura que genere comunidad y sostenga a la mayor cantidad de proyectos políticos de izquierda para caminar juntos sobre una base mínima y que evite los errores cometidos por quienes nos antecedieron en la lucha por la emancipación. 


Aunque comparto con entusiasmo muchas de las ideas de los partidos institucionalizados de izquierda (siempre precarios en nuestro país), que han hecho énfasis en problemas como la expansión imperialista de las economías del Norte, la depredación ambiental y el colonialismo cultural; salvo alguna excepción, no han incluído entre sus planteamientos un factor que creo indispensable para explicar cómo se enlazan los tres anteriores: el patriarcado


Después de todo, el sujeto articulado por vencer es siempre un hombre, blanco, heterosexual, adulto, de clase media, neuronormal y  eurocentrado que participa en relaciones de dominación y, luego, de opresión con los grupos que ha desplazado históricamente hacia la marginalidad: mujeres, discapacitadxs, ancianxs, negrxs, indígenas, transexuales, animales, etc. Desde mi perspectiva, cualquier lectura revolucionaria y empática (cuya base sea más la sororidad que la fraternidad) que se haga del país no puede ignorar que el patriarcado es un elemento estructural de lo social en la época contemporánea.


Esto nos debe llevar a una autocrítica. Creo que los grupos de izquierda se han caracterizado por trabajar exclusivamente en dos dimensiones del saber: el saber-pensar y el saber-hacer. En lo que respecta al primero, el saber-pensar, han logrado un nivel muy alto de producción intelectual y puedo afirmar que, junto con los think tanks de los liberales, lxs militantes de las izquierdas son lxs que más sostenidamente han reflexionado sobre el Perú. Respecto al segundo tipo de saber, el saber-hacer, tengo la impresión de que nuestra performance no ha sido la mejor. Obtenido el poder, hemos quedado golpeadxs por los casos de corrupción de las gestiones del Partido Nacionalista y de Fuerza Social (aunque esta última sostuvo una serie de experiencias valiosas de las cuales aún podemos aprender). 


Pero hay dos saberes más, el saber-ser y el saber-convivir, que han quedado rezagados como prioridad. La causa es que la distinción liberal entre lo público y lo privado, que hemos empezado a sentir artificial gracias a los feminismos, se ha replicado en otra distinción: la de lo ético como individual y lo político como colectivo. Ese es otro error.


No hay política sin ética y no hay ética sin política (entender esto a cabalidad puede llevar a que cada unx necesite pasar por un largo proceso de reeducación).



Asimismo, no hay dimensión individual sin la grupal y no hay dimensión grupal sin individuos. Mantener esta visión dialéctica es vital para el diseño estratégico de los movimientos de izquierda. Lo micropolítico (las palabras, los gestos, el modo de relacionarnos) lejos de separarnos, debe permitirnos formar lazo y, para ello, es urgente establecer, otra vez mediante el intercambio de ideas, pero también a través del enfrentamiento frontal a quienes nos niegan una vida digna, normas que nos permitan convivir y actuar democrática y horizontalmente (que la revolución burguesa sea insuficiente no significa que debemos desechar sus mejores frutos, lo que al mismo tiempo nos debería llevar a reconocer que gobiernos como el de China, Cuba y Venezuela han devenido en autoritarios), sin caer en los modelos dictatoriales ni en la intolerancia al disenso que ha caracterizado al "socialismo real" del siglo XX. 


Solo si lo logramos, podremos mantenernos unidxs y enfrentarnos al eterno retorno de los conservadurismos, los modelos totalitarios y la barbarie capitalista. 


Frignano, marzo de 2021




P.D.: Y  sí, el enemigo no es el populismo "de izquierda" de Lescano; sino la derecha radical de López Aliaga.